La consulenza filosofica affronta l’argomento della felicità con delicatezza e prudenza. Innanzitutto deve affermare, per sgombrare il campo dalle ipersemplificazioni e dagli usi ideologici del termine, che non esiste alcun diritto alla felicità, esiste invece una ricerca costante della realizzazione più piena dell’umanità dell’uomo. Tale ricerca procede faticosamente nelle difficoltà della vita quotidiana e riguarda il concetto di un’eccellenza, di qualche cosa di buono o di ottimo, di una condizione in cui le domande fondamentali dell’esistenza risultino appagate, nel quale cessi quel pungolo continuo del desiderio che ci fa correre incessantemente da una cosa all’altra senza che niente risulti definitivo. Aristotele aveva identificato felicità e virtù, individuando nella vita filosofica la forma migliore di esistenza. La vita filosofica consisteva nella conoscenza della realtà attraverso l’organo della ragione e nell’uniformarsi al comportamento più giusto individuato mediante la ragione stessa. Ma l’agire secondo la facoltà più alta posseduta dall’uomo, la ragione appunto, e il perseguire l’ideale della conoscenza, pur rimanendo vie maestre per la felicità, comportano una pratica filosofica che soddisfa i criteri eudemonistici dell’antichità. Nella nostra modernità – in un contesto ideologico mutato complice anche l’apporto del cristianesimo – il concetto di felicità acquisisce una dimensione utopica e si connota con l’idea di una pienezza e di una totalità che la fanno coincidere con ciò che viene chiamato beatitudine. La beatitudine è un concetto escatologico e presuppone il salto verso una dimensione diversa della realtà, nella quale tutta l’umanità viene trasfigurata secondo l’assoluto della promessa divina. Per questo oggi felicità, fuori da un contesto religioso, è una parola che va pronunciata con attenzione e circospezione. Nella consulenza, piuttosto di farla diventare una chimera, come lo sono le categorie della teologia secolarizzate o indebitamente usate per indicare realtà mondane, è meglio parlare d’altro oppure dire che essa è un’esigenza ineliminabile dello spirito ma che la sua ricerca ha da essere qui ed ora incompiuta e senza fine, in modo che felicità divenga un ideale regolativo ossia un fine assente, un criterio effettivo dell’agire, la cui realizzazione però non è posta in questo mondo. Quindi bisognerebbe lasciare il mondo delle idee assolute ed entrare nello specifico, per esempio cercando di capire se tale criterio sia compatibile o no con la concreta inesausta ricerca del godimento personale (edonismo), o se la via sia quella della giustizia e talvolta anche di una moderata e ragionevole ascesi rispetto alla seduzione della gratificazione istantanea. Oppure – sempre a mo’ di esempio – vedere se la via in direzione della felicità possa essere percorsa dall’individuo solo ovvero se sia un cammino intersoggettivo e comunitario. Tutto ciò lasciando sempre prudentemente sullo sfondo la dimensione dell’attesa, dell’ascolto del mistero e della fede che rimane l’organo connaturale a quella realtà pleromatica cui sempre la felicità rimanda, realtà tutt’altro che secondaria e vivamente operante anche nel più “laico” di tutti noi.
Massimo Maraviglia