Il disagio si rivela sempre nella duplice dimensione dell’interiorità e della relazione con il mondo esterno. E’ sempre il mondo-ambiente che risuona in maniera falsa e fastidiosa nell’intimo, ed è sempre dall’anima che non riescono a giungere motivazioni e istanze per entrare in relazione adeguata con il mondo. Ciò genera un non-star-bene con se stessi e con gli altri che non è ancora sofferenza, ma che produce alla lunga effetti estremamente negativi sulla qualità della vita delle persone: irrequietezza, mancanza di sicurezza e di autostima, insoddisfazione, tristezza, senso inadeguatezza nel rapporto con l’altro sesso, incapacità di ritrovarsi gradevolmente in un’occupazione, senso di alienazione e del venir meno di uno scopo per cui valga la pena impegnarsi etc.. Bisogna però premettere che una certa dose di disagio fa parte della vita dell’uomo, nella quale una completa e perfetta sovrapposizione tra i propri desideri e la propria effettiva condizione non è pensabile, ed anzi forse genererebbe una sorta di immobilità quietistica che sarebbe contraria alla fondamentale vocazione umana all’azione. Viceversa si può verificare il caso in cui la “scomodità” dell’esistenza diventi difficilmente sopportabile. Ciò, come detto, accade necessariamente nella relazione dell’Io con il mondo ed è qui che va ricercata una possibile contromisura. A tal riguardo sono due le possibili vie, che chiameremmo con Carlo Michelstaedter la via della rettorica e la via della persuasione. La prima consiste nella rimozione e nella sublimazione (uso qui due termini tipici della psicanalisi ma fuori dal loro contesto tecnico e nel significato che ormai hanno assunto nel linguaggio comune): rimozione significa non guardare in faccia ai propri problemi, rifiutarsi di affrontare o, quanto meno, di cercare le possibili cause del proprio disagio e nel rivolgere invece la mente (sublimazione) a ciò che può compensare il proprio non-star-bene. Qui la società mette a disposizione una serie di cure palliative che procurano quel certo ottundimento edonistico della sensibilità, quella certa effimera sensazione di riempimento, quella gratificazione immediata ma poco durevole che, lungi dal risolvere il problema, ne rappresenta una fugace messa-da-parte. Questa è funzionale alla prevenzione di comportamenti devianti rispetto ai codici accettati dalla società stessa – non si tratta, ovviamente, dei soli comportamenti criminali, che per lo più hanno altra natura e altre motivazioni, bensì di forme possibili di ribellione e critica distruttiva per il modo dominante di concepire la vita e il mondo. Dette cure-palliative possono talora produrre una vera e propria dipendenza. Oggi come oggi si assiste ad un vero e proprio proliferare delle dipendenze che vanno da quelle classiche e più gravi - alcool, droga, farmaci - a quelle meno visibili ma non meno soggettivamente ingombranti – fumo, gioco, televisione, sesso, shopping, cibo etc.. Il loro carattere comune è nell’ossessivo e continuo rimandare dalla fruizione di un bene alla ripetizione di essa in un circolo che non ha fine e che ha le caratteristiche appunto del rimandare rettorico – cioè inconcluso, ripetitivo, continuo, ridondante, nichilistico - del soddisfacimento di una pulsione da un oggetto all’altro. Allora, di fronte all’aggravamento complessivo della situazione corrispondente alla dipendenza, il meccanismo di integrazione sociale produce una cura palliativa diremmo alla seconda, cioè un rimedio strettamente funzionale non alle esigenze profonde del soggetto ma alla sua riconduzione nell’alveo della normalità socialmente sostenibile: ecco allora le cliniche per la disintossicazione (per i più ricchi), gli psicologi, i centri per la “riduzione del danno” (per i più poveri), le comunità religiose e tutte quelle istituzioni di contenimento e riabilitazione che utilizzano metodi diversissimi e anche del tutto legittimi (come lo sono per sé la psicologia e la religione) con la peculiarità, però, di orientarli non ai contenuti di verità loro propri ma a logiche di interesse sociale. Ciò avviene per lasciare in fondo intatto il sistema della domanda-offerta di beni e servizi e al tempo stesso garantire una “sopravvivenza” dell’individuo, in modo che tutto cambi ma alla fine tutto resti immutato. E’ chiaro che, se si pone la questione in tali termini, non si affronta il disagio per quello che è, ma solo per i suoi possibili effetti negativi sul vivere in comune, evitando di dare una risposta alla domanda dalla quale il non-star-bene ha inizio. L’esito non può essere che quello di una moltiplicazione del malessere e di una proliferazione cancerosa di finti rimedi che in realtà aggravano la situazione. L’alternativa è quanto abbiamo indicato come via della persuasione. La persuasione è un convincimento del vero, quand’anche di una verità difficile e dolorosa, che nasce da una mentalità critica e disincantata, la quale fa dello smascheramento delle finzioni individuali e sociali il proprio ideale-guida. A tale sguardo profondo verso la vita possono contribuire le stesse discipline precedentemente piegate alla retorica, se orientate in modo disinteressato al proprio oggetto interno, la verità dell’anima per quanto riguarda la psicologia, la verità in senso totale per ciò che concerne la religione. E tuttavia l’organo critico per eccellenza è da individuarsi in questo caso nella filosofia. Questa non è immune da un uso inautentico – in tal caso si chiamerebbe “ideologia” – ma è al suo interno che viene sviluppato esattamente quell’organo del disincanto e quella passione per il vero che orientano verso la ricerca di una soluzione non di facciata al disagio. Una filosofia personale, ovvero centrata sull’individuo concreto, in un dialogo serrato e reciprocamente controllato, all’interno di un patto comune di ricerca e di una comune prospettiva esistenziale di verità è propriamente quanto la consulenza filosofica si propone di offrire. Qui allora non si tratta di approntare un mezzo palliativo per perpetuare la propria esistenziale opacità, ma di mettere a tema lo stile di vita, il criterio e lo scopo che ciascuno si propone di raggiungere vivendo e la natura profonda delle difficoltà che si incontrano lungo il cammino. Se vi fosse la necessità di mettere in forse la bontà del modello sociale in cui il soggetto è inserito, la qualità delle relazioni che ne caratterizzano la quotidianità e tutto il mondo da lui abitato, lo si dovrebbe fare, così come non ci si dovrebbe fermare alla superficie delle bugie che gli uomini talvolta raccontano a se stessi per sopravvivere o per paura di non farcela, ma sempre cercare il luogo più interno, più vero dove si nasconde il cuore di ogni questione. E’ certamente una via difficile e, nella sua difficoltà, non priva di una certa ideale irraggiungibilità, e cionondimeno doverosa in quanto criterio per dare un senso possibile al nostro non semplice e non sempre agevole passaggio sulla terra.
Massimo Maraviglia