Secondo Martin Heidegger l’aver cura degli altri è un modo tipico d’essere dell’uomo, il quale è originariamente “con” gli altri e dunque “verso” gli altri da sempre e per costituzione aperto. Non è pensabile l’essere umano (Esserci) senza un mondo popolato da oggetti ma soprattutto da persone che interagiscono non in modo accidentale e fortuito, ma proprio in base alla loro essenza. Heidegger chiama il modo della loro interazione l' "aver cura". Questo si declina in due ulteriori modalità. La prima è quella dell’operare affinché l’altro giunga a realizzare consapevolmente e liberamente il proprio progetto e la propria umanità. Si tratta, potremmo dire, di una forma materna e paterna di assistenza dell’altro, in cui questo viene aiutato a diventare ciò che è, a formarsi secondo una valorizzazione di ciò che costituisce la propria autentica e migliore personalità. Per far ciò bisogna attendere in generale al bene altrui, al sostegno del carattere, alla disciplina delle debolezze, alla costruzione di una sensibilità per il bello, il giusto e per la cultura nel senso più ampio, in un rapporto sano e liberante con se stesso e con il proprio ambiente umano e materiale.
Accanto a ciò vi è un aver cura che “solleva gli altri dalla cura, sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto” (M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, p. 157). Il prendersi cura è quella relazione originaria che l’uomo ha con gli oggetti utilizzabili nel suo ambiente vitale. Egli utilizza gli oggetti e in generale il mondo in vista di un proprio progetto esistenziale cui quelle cose sono finalizzate in qualità di strumenti. Questi sono anche i mezzi di sopravvivenza, oppure ciò che permette la normale vita associata, ciò che viene forgiato nel lavoro, ciò che insomma costituisce il correlato di beni necessari alla nostra quotidianità e nel procurarsi il quale si impara a orientarsi nel mondo e a ordinare l’esistenza. Ora, tale corredo di cose di cui ci si prende cura può essere fornito anche da altri, che possono sostituirsi ad un determinato soggetto nella sua fatica di stare al mondo, una fatica che è tuttavia sommamente educativa e formatrice. Sostituita da un altro in un compito che è proprio, la persona viene “aiutata”, in realtà non in vista del suo autonomo sviluppo, ma della sua dipendenza dall’altro che le fornisce i servizi, con l’esito di una sua sostanziale sottomissione (certe madri iperprotettive, senza volerlo, si comportano precisamente in questo modo con i loro figli).
Inutile dire che la consulenza filosofica ha per obiettivo e vocazione la prima forma dell’aver cura, che è ausilio fondamentale per la crescita umana, cui la filosofia ritiene di potere contribuire in modo determinante. Ciò in polemica con tutti coloro che, sia come singoli sia come società, propugnano il secondo orientamento che si traduce nel perseguimento tenace e ad ogni costo del comfort materiale e tecnologico, unito a forme di welfare che sconfinano anche nel campo etico e culturale producendo, accanto a manifestazioni estreme e informi di individualismo patologico, un clima totalitario di conformismo di massa e un immaturo quietismo individuale e socio-politico.
Massimo Maraviglia