Glossario

LE PAROLE-CHIAVE DELLA CONSULENZA FILOSOFICA

Vi presentiamo alcune brevi, riassuntive ma efficaci definizioni di concetti-chiave per la consulenza filosofica, ad uso di coloro che praticano questa disciplina e degli utenti che se ne servono.


 

denaro



Denaro
Presento qui un post da me pubblicato sul blog “ekpyrosis05.splinder.com” riguardante un articolo del quotidiano “Libero” sulla consulenza filosofica. L’esperienza dell’articolista con una “consulente” non è stata delle più entusiasmanti e ciò ha dato adito ad una generalizzazione poco lusinghiera sulla disciplina stessa. Qui commento il pezzo in questione, sintetizzandone le tesi, e offro una visione alternativa. Ciò che più interessa è però il breve dibattito, tra me e Alessandro Dal Lago, cui la mia presa di posizione ha dato luogo. L’autore del testo, provocatorio ma interessante, intitolato “Il business del pensiero” è intervenuto sul blog offrendo ulteriori spunti di riflessione, che qui riporto, utili a mio parere per farsi un’idea della complessità delle questioni in gioco in un campo dove si incontrano e scontrano filosofia, professioni d’aiuto, destini umani e denaro.
                                                                                             Massimo Maraviglia

 

"LIBERO" E LA CONSULENZA FILOSOFICA
Cronache di un pregiudizio


Disavventure


Se qualcuno va in un ristorante e si trova male, può ben lamentarsi dell’incapacità del cuoco o della lentezza del servizio. Certo non gli verrà in mente di dire che tutti i ristoranti siano luoghi da fuggire, anzi che il ristorante in sé sia una pessima invenzione. Disgraziatamente capita che, per le discipline o i servizi di recente ideazione, l’incontro con un professionista poco preparato generi un giudizio poco lusinghiero sulla professione in generale. È il caso della consulenza filosofica e dell’immagine, a dire il vero un po’ caricaturale, che ne dà Giovanni Sallusti su "Libero" di martedì 25 settembre. Sallusti incontra un consulente filosofico. Gli espone questioni "esistenziali" di diverso peso e rilevanza per la vita personale: incertezza sul proprio futuro, qualche gozzoviglia di troppo, episodi di somatizzazione di disturbi ansiosi. Le risposte del consulente oscillano dal luogo comune di una psicologia da rivista femminile (con tutto il rispetto!!!) alle banalità circa una supposta rigidità etica del cliente verso se stesso, un cliente, il nostro Sallusti, che dovrebbe «giudicarsi meno severamente». Per non parlare di un parere indebito e di sconcertante superficialità relativo a questioni legate all’alcolismo e di altre perle di saggezza da partita di bridge. La sconsolata e sconsolante impressione ricevutane dal giornalista appare alla fine del tutto giustificata e il giudizio completamente negativo sulle chiacchiere che ha sentito altrettanto condivisibile.


Che cosa concludere?


Se è andata così, non essendovi motivo di dubitare, è certamente andata male: Sallusti ha sbagliato ristorante. Quale consiglio dare? Cambi guida, passi dal "Gambero Rosso" alla "Michelin" o ad altro. Fuor di metafora, se proprio vuole ripetere l’esperimento, cerchi altrove, tra le diverse associazioni, qualcuno che gli sembri più attendibile. Ma se è possibile, per amore di correttezza, diremmo, scientifica, non generalizzi. Un laureato in filosofia, come Sallusti afferma di essere, sa bene, infatti, quanto sia pericolosa e fallace la generalizzazione a partire da un caso solo.
Viceversa ho personalmente visto gente molto seria impegnata nella consulenza filosofica, che è un nome "collettivo" per una molteplicità di pratiche di riflessione individuale e di gruppo che non mancano di rigore e profondità. La mia esperienza consulenziale tra medici, infermieri e psicologi di un reparto di oncologia potrebbe da sola testimoniare di quale serietà siano le questioni di cui si occupano i consulenti. Alcune iniziative di amici e colleghi nel campo psichiatrico e della prevenzione delle tossicodipendenze potrebbero rappresentare un ulteriore banco di prova. Ma anche la capacità di trovare ascolto e di elaborare comunitariamente riflessioni non banali in contesti produttivi dove non vi è tempo da perdere, perché il tempo sarebbe denaro, testimonia l’interesse che può raccogliere una apertura sul filosofico rigorosa e professionale. E ciò in ambiti di impresa dove paradossalmente il pensiero non immediatamente orientato all’utile può risultare un valore aggiunto sulla base di quell’eterogenesi dei fini, più volte osservata, secondo cui si consegue più facilmente il proprio vantaggio non ricercandolo in modo ossessivamente diretto.
Insomma le disavventure con i consulenti possono accadere, come ne accadono in qualsiasi campo. Ma nella consulenza filosofica si gioca qualcosa di troppo prezioso per lasciarla andare. È in ballo qui la possibilità di orientare secondo un senso alto, non nichilistico, non relativistico e, direi persino, spirituale le vite delle persone che lo desiderano. Non ovviamente con la stupida e semplicistica proposizione di ricettine psicologistiche. Non con yoga, erbe, psiche e omeopatia, come direbbe il poeta, ma con la forza di un pensiero criticamente attrezzato, innamorato della realtà e della sua meravigliosa e complessa strutturazione, e attento all’impegno pratico, alle esigenze etiche non in ultimo radicate nella nostra inesausta ricerca dell’Assoluto e del Vero.
C’è allora qui anche la via che, percorsa con gli strumenti e le intenzioni adeguate, permette di non abbandonare al deserto dei valori, delle idee e del pensiero la società civile, i suoi "corpi" (cioè le sue organizzazioni e istituzioni) e infine le sue classi dirigenti. Ciò non per merito dei consulenti filosofici, fallibili e miseri come tutti gli abitanti di questo pianeta, ma della filosofia. Una filosofia che, proprio nella logica di coloro che l’hanno praticata nelle piazze-agorà (e non nei circoletti aristocratici), a contatto con la vita migliora se stessa e si mette nelle condizioni di migliorare chi ne fa buon uso.


Delusi e puristi


A fronte di tutto ciò, gli articoli comparsi nella pagina della cultura dello stesso quotidiano mercoledì 26, invece che rimediare alle incomprensioni in parte giustificate di Sallusti le aggravano. Infatti il pezzo dal titolo "Litigi, santoni e scissioni. Storia di una pseudoscienza" a firma Giuliano Compagno, lungi dal portare argomenti epistemologici e filosofici alla tesi dell’inconsistenza della consulenza filosofica, produce una storia molto personale dell’approccio dell’articolista all’"ambiente" dei consulenti, che, come ogni gruppo umano, ha pregi e difetti e si espone ad un tipo di critica che nulla ha a che fare con l’essenza della disciplina in questione. Tant’è vero che il titolista si lascia in effetti prendere la mano, giacché Compagno nei suoi brevi accenni teorici — più che altro giudizi sui singoli autori: bravo Poma, così così Pollastri e Galimberti, non bravo Lahav, pessimo Achenbach (sono alcuni tra gli autori nazionali e internazionali più in vista della consulenza filosofica) — non costruisce nessuna argomentazione contenutistica e tanto meno accenna ad una supposta pseudoscienza. Semplicemente racconta la sua esperienza non soddisfacente all’interno di un sodalizio pur importante e di prima grandezza come Phronesis, associando in modo estetico questo suo racconto (mythos in termini tecnici) alla cattiva impressione ricevuta da Sallusti a contatto con un professionista non preparato e ricamandoci sopra un epitaffio duro e ingiustificato che punta il dito contro gli illusionisti della consulenza filosofica che si inserirebbero in un mercato florido dove si "guadagna benino".
Nulla di più falso: innanzitutto per i consulenti filosofici seri — che ci sono e in numero non inferiore a quello di altri professionisti — il mercato non è florido, ma, accanto alla comprensione e all’entusiasmo di chi intuisce le enormi potenzialità della disciplina, sia egli un privato cittadino o un operatore di settori di interesse pubblico (medico, psicologo, dirigente di enti locali etc.), sconta l’opposizione degli scettici, dei pratici, degli alfieri del «laurà-dané, laurà-dané», per cui i filosofi sono gente inaffidabile che guarda in aria e cade nelle buche del terreno. Inoltre subisce gli attacchi dei puristi della filosofia e della cultura che dai loro scranni accademici o dalle loro ben pagate rubriche giornalistiche pontificano contro la "svendita" della filosofia da parte di pericolosissimi rinnovatori della sofistica (che, a sua volta, gode di cattiva fama non per il vicolo cieco scettico della sua riflessione ma per l’altezzoso atteggiamento di condanna che il ricco e aristocratico Platone manifestò nei suoi confronti a causa del fatto che i suoi rappresentanti maggiori si facevano pagare per esercitare il loro lavoro filosofico). Ma di questo riparleremo.
In ultimo paga un certo opportunismo accademico, giustamente denunciato da Neri Pollastri nel suo ultimo testo Consulente filosofico cercasi (Apogeo, Milano 2007, pp. 1-24) — una denuncia, la sua, importante anche se necessiterebbe di qualche ulteriore specificazione e distinzione tra iniziative serie e no —, in virtù del quale si chiamano a raccolta studenti di filosofia in varie proposte di formazione non sempre all’altezza e spesso viziate da una sorta di trionfalismo carrieristico: caro aspirante filosofo, si dice, finalmente hai trovato il lavoro che fa per te, facile, sicuro e senza troppi oneri. Fare consulenza invece non è cosa facile, né garantita né priva di oneri in termini di preparazione, capacità progettuali, relazionali, organizzative e comunicative. Di tutto questo bisogna avere coscienza in modo da accostarsi alla consulenza con tutta la serietà e l’impegno possibili e senza illusioni su scorciatoie professionali che non esistono.
Ma accanto al pezzo di Compagno vi era sul quotidiano di Vittorio Feltri un articolo di Marcello Veneziani, intellettuale di razza quando scrive di cose che conosce, ma a rischio di banalizzazioni, come tutti noi del resto, quando viene chiamato a pronunciarsi in qualità di tuttologo. In effetti nel suo "I filosofi migliori sono quelli inutili" allorché, sull’onda dell’incomprensione di Sallusti, parla di una filosofia dagli intenti terapeutici — cosa che ogni consulente si premura di escludere sin dagli inizi — e quando afferma: «Chi si apre uno studio di filosofia per vendere sedute o terapie compie una profanazione che somiglia in religione alla simonia, alla vendita di arredi sacri rubati in chiesa o al traffico di indulgenze», mostra di non conoscere ciò di cui parla. Il consulente filosofico, infatti, non vende terapie, ma mette a disposizione la propria competenza per quella che è stata giustamente chiamata un’analisi delle visioni del mondo e del loro rapporto con i comportamenti concreti delle persone, con i loro disagi, ma anche con i loro progetti e programmi per il futuro. Si tratta di un’analisi che non fornisce consigli a buon mercato ma che ambisce a giungere alle radici dello stare al mondo dei soggetti e cerca di formulare con loro una possibile proposta di mondo (S. Natoli). Ciò nella convinzione che senza elaborare consapevolmente un proprio sistema di pensieri, giudizi, valutazioni sufficientemente argomentato e critico si è maggiormente esposti al rischio di fallire nella propria vita, intendendo con fallimento non il banale insuccesso economico e di posizionamento sociale, ma qualcosa di più radicale, avente a che fare con l’autenticità dell’essere umano e della sua vocazione alla giustizia e alla verità a tutto tondo. E l’individuo che fallisce in tale delicatissimo ambito incrina una rete di relazioni e mette a rischio anche la riuscita della vita degli altri, depauperando complessivamente l’ambiente in cui vive e infine la società tutta.
Mi si dirà: ma tu puoi indicarmi qualcuno la cui vita può considerarsi riuscita a partire dal punto di vista che hai sottolineato? Chi può dire di essere riuscito a realizzare pienamente la propria umanità, a ricercare e a conoscere almeno in parte la verità, una verità che realmente lo abbia liberato e reso migliore? Quale gruppo umano può dire di vivere dando radicalmente ragione della speranza che è in ogni uomo? Ebbene, ammettendo in ogni caso che non si tratta di questioni di poco conto e di facile realizzazione, io qualche indicazione potrei darla. Ma ciò che più conta per la consulenza filosofica non è la trasformazione dei propri utenti in perfetti (nel senso cataro del termine), o in asceti o in mistici o in uomini comunque eccezionali. E neppure la trasformazione dei gruppi in cui agisce in chiese dei santi o in comunità di eletti. Importante è mettersi nella via, è individuare mete alte, è costruire gerarchie di valori che rendano possibile l’impegno per la propria autoelevazione e per la giusta rispondenza di tutte le imprese mondane ai reali bisogni del cuore umano e alla dignità infinita della persona. Questo, potremmo dire, è lo spirituale della consulenza filosofica, nell’umile consapevolezza, che essa dovrebbe sempre mantenere, di non rappresentare una panacea o un farmaco, ma solo un pungolo, uno stimolo, un’occasione.
Come si vede nulla di utilitaristico. Anzi, se vogliamo, la consulenza filosofica potrebbe coincidere con una pedagogia personalizzata, al dettaglio cioè rivolta a singoli o piccoli gruppi, verso l’inutile di cui giustamente Veneziani fa l’apologia, l’inutile in quanto è vero cioè in quanto elemento che nella sua verità può anche rinunciare al calcolo dei costi e dei benefici (lasciando che l’utilità sorga quasi come un fiore dal Bene o dalla virtù come sostiene, sulla scia di Tommaso e in modo del tutto condivisibile, l’amico Giacomo Samek Lodovici nel suo L’utilità del bene — Vita e Pensiero, Milano 2005).
Ora, se Veneziani compie la sua opera a favore di questa specie importantissima e utilissima di "inutile" dalle colonne di "Libero" o attraverso i suoi libri e le sue conferenze, e non si scandalizza di venir pagato per questo, per quale motivo il consulente filosofico che fa lo stesso lavoro ad personam, con tutto il supplemento di impegno che richiede l’affrontare questioni teoretiche non in astratto ma incarnate nell’uomo concreto e nella sua vita, dovrebbe rifiutare di vedere riconosciuta la sua attività anche attraverso un degno onorario?La stessa domanda rivolgerei ad Alessandro Dal Lago che, assieme al "Manifesto" (che strana coppia Feltri e la Rossanda uniti nella lotta!), ha condotto una vera e propria campagna di opinione contro la consulenza filosofica, scandalizzandosi di questo impuro rapporto della filosofia con il denaro (cfr. A. Dal Lago, Il business del pensiero, Manifestolibri, Roma 2007).
Ebbene, scusate, ma queste ipocrisie puriste mi danno un po’ sui nervi... siano esse di matrice sinistroide-pauperista o destroide spiritualista. Ed è ora di finirla che ricchi borghesi di sinistra o delicati spiriti goderecci di destra ci impongano queste catene di una filosofia che ha ben presto rinunciato alla rivoluzione e allo spirito per accomodarsi nelle poltrone delle redazioni, delle case editrici o delle accademie... e dì li ci impartisce lezioni di morale e di deontologia. Se codesti custodi dell’ortodossia-ortoprassi filosofica ci mandano a lavorare, in miniera ovviamente, o al cantiere, o sulle strade come si conviene a coloro che tradiscono la sacertà e nobiltà della vera teoresi, se essi ci intimano così di lasciare stare la pratica "sporca" e mercenaria della filosofia, ebbene sappiano che noi in miniera, al cantiere, sulla e nella strada ci siamo già stati, e di questo parliamo con i nostri compagni di strada, cioè i nostri consultanti e clienti, mentre aspettiamo che altri dai loro scranni scendano e ci diano il buon esempio, facendoci vedere in concreto che cosa sanno fare.


Idola temporis


Sempre rimanendo in tema, non so se al "Manifesto" abbiano subodorato nella consulenza filosofica la strisciante mercificazione del pensiero in una logica che essi ritengono capitalistica, di destra e quindi orribile e sbagliata. Non so del resto se su "Libero" abbiano intravisto nella consulenza una versione teoretica della psicanalisi, con tutto quel corollario di solidarismo laicistico, modernissimo, secolare, ipercritico, antitradizionale e tendenzialmente relativistico che si porta dietro e che fa rabbrividire l’orgoglioso patriota dell’Occidente, ateodevoto, muscolare e bushomorfo.
In entrambi i casi mi sembra che l’ostinazione talvolta mostrata dai vari intervenuti nel dibattito rifletta difetti ideologici speculari e complementari, frutto entrambi dell’apriorismo cui costringe una visione delle cose in cui la conflittualità politica, dove predomina la logica amico-nemico, la fa da padrona. Siamo dunque ancora fermi al Novecento. La consulenza filosofica ambirebbe ad uscire dalle gabbie d’acciaio di quel secolo, certo onorando la politica e tutto quanto è di Cesare — forse tra le sue cose potrebbe nascere ed essere riconosciuta l’esigenza di un po’ di pensiero (se Cesare non mettesse ogni volta mano alla pistola...) —, ma restituendo spazio a tutto il resto che reclama di essere affrontato e valutato con serenità. In simili circostanze ad una versione rozza della lotta politico-ideologica che chiude occhi e orecchie di fronte a ciò che è nuovo, tentando di leggerlo con categorie improprie e superate per non scontentare la propria parte, andrebbe fischiato un fallo da chiarissima posizione di fuorigioco.


                                                                                                                             Massimo Maraviglia


DIBATTITO

Nel post sulla consulenza filosofica, mi si chiama in causa come autore di una "campagna" contro la Consulenza filosofica e, suppongo, mi si definisce uno di quei ricchi borghesi di sinistra che, dall'alto dei loro scranni, pontificano ecc. Beh, non ho fatto alcuna campagna, ma semplicemente scritto un libretto, per puro divertimento, sulla CF. Quanto all'essere un ricco borghese di sinistra, mi piacerebbe! Ma, ahimè, vivo esclusivamente del mio stipendio di docente universitario. Questo, a proposito delle "generalizzazioni" indebite di cui l'autore si lamenta.
Mi si chiede perché un consulente filosofico non dovrebbe ricevere un adeguato onorario. E perché no? Viviamo nella società dell'intraprendere, dopotutto, e quindi sono fatti suoi e di chi lo paga.
Altra cosa è invece riflettere sul significato profondo di una pratica, la cui rilevanza filosofica, per il momento, è solo nelle assicurazioni di chi vi si dedica. Su questo punto, l'autore del post - tra generalizzazioni e polemiche un po’ trite contro gli intellettuali - non dice nulla.


                                                                                                                                           Alessandro Dal Lago

Gentile professore,
Non sono io ad aver inserito nel titolo di un mio testo la parola "business" che, lei mi insegna, ha una forte connotazione di classe. Allora, visto che di "business", anche con tutte le sue sfumature che alludono alla sfera della"fregatura", del "profitto illecito", dell'"affare" non troppo limpido, qui non c'è nemmeno l'ombra, posso aspettarmi da lei una certa indulgenza per il risentimento con cui ho condito la mia invettiva contro i "ricchi borghesi".
Più interessante è invece la sua osservazione sulla rilevanza filosofica della consulenza e delle pratiche filosofiche, discipline, queste ultime, che di fatto lei pone, e giustamente, sullo stesso piano nel suo testo.
Ebbene, la mia opinione è che tale rilevanza si decida all'interno di una dialettica e di un dibattito filosofico. Lei insegna e chi insegna sa che l'insegnare è una pratica. L'insegnamento della filosofia è, si potrebbe dire, la pratica filosofica per eccellenza, tradizionalmente distinta dall'altra pratica della ricerca "pura" (che, lo sappiamo, pura non è mai), per esempio, ai fini di una pubblicazione.
Come si decide la rilevanza filosofica di tali pratiche? C'è forse un giudice superiore che può dire che l'insegnamento è di per sé filosoficamente povero? O che la ricerca, nel suo rischio di eccessiva astrazione dalla "vita", sia intrinsecamente manchevole? O sono invece queste delle semplici possibilità, dei possibili inciampi connessi ad ogni pratica che come tale può essere "difettiva"? Insomma, la rilevanza filosofica della consulenza, ripeto, si dovrebbe discutere dentro la consulenza, così come solo un allievo o un altro insegnante, o uno che comunque si pone in un atteggiamento di apertura relazionale con il docente e di ricettività verso delle sue parole, può valutare la rilevanza filosofica dell'insegnamento (che può essere l'insegnamento di Platone nei confronti di Aristotele, di Alberto Magno nei confronti di Tommaso, di Husserl nei confronti della Stein, oppure quello di un mediocre filosofo nei riguardi di un mediocre studente, con tutte le gradazioni che ci sono in mezzo). Allo stesso modo una consulenza condotta da Neri Pollastri - lo cito in quanto ho potuto assistere a diverse sue interessanti "performances" pubbliche - o una sessione di filosofia in un gruppo con il prof. Giuseppe Ferraro - che fa pratica della filosofia con i carcerati -, sono espressioni di alto e talora altissimo livello filosofico che si contrappongono all'esperienza di cui rende conto l'articolista di Libero, in cui la filosofia è presa invece a calci nel sedere.
Come consulente filosofico mi piacerebbe che fossero valutate le mie capacità e i miei "prodotti", che fossero apprezzate o confutate le mie affermazioni e giudicato lo stile più o meno filosofico della mia vita (ovviamente di quella parte di essa che si espone alla valutazione altrui). Se fosse così non ci sarebbe posto per lo scandalo e per un certo puritanesimo accademico che mi vorrebbe figlio di un dio minore perché sono fuori dall'istituzione universitaria. O che in alternativa prepara lapidazioni perché mi faccio pagare e servo Mammona invece che le sacre, castissime e poverissime Muse della teoresi.
Di questa aria un po' giacobina che circonda testi come il suo non vi è bisogno, mentre laddove, anche nel suo scritto, ci si sofferma sui contenuti e si discute, ammettendo implicitamente la uguale dignità degli interlocutori, le critiche sono le benvenute. Ma in questo caso anche lei si deve riconoscere come un soggetto che pratica la filosofia...e noi siamo ben contenti di accoglierla nel mondo delle (ora finalmente consapevoli) pratiche filosofiche.
Un cordiale saluto
 

                                                                                                                                          Massimo Maraviglia

Ciao massimo, peccato se rimane un botta e risposta...
Per me il punto più interessante dell'intero dibattito (che confesso di non trovare nel complesso molto interessante) è che il Dal Lago si diverte (cito "ho scritto un libretto per puro divertimento") mentre i filosofi praticanti si preoccupano, e si difendono. Male: mettersi sulla difensiva è già avere torto.
Il Dal Lago fa delle domande, i filosofi che domande fanno? Perché io penso che la consulenza filosofica sia una domanda.
Per esempio: è l'università un luogo adatto per prendersi cura dei pensieri?
 

                                                                                                                                                (utente anonimo)

Caro Maraviglia,
a rischio di rendere ancora meno interessante il dibattito, come paventa un altro utente, mi sia permessa una breve considerazione. Francamente, non so nulla di quello che si fa davvero nella consulenza. Un po' come avviene in qualsiasi altro colloquio professionale, dalla psicanalisi alla consulenza aziendale, mi posso basare solo su quello che ne leggo (non sono mai stato un utente di tali pratiche e ovviamente un praticante). Ora, non nego affatto - in questo senso - che nella CF ci sia della "filosofia", ci mancherebbe. Ma il punto è: di che filosofia si tratta? Alla fine, tutto non può che tornare alla parola scritta, una griglia o un setaccio o un mezzo senza cui il pensiero è solo allusione o riferimento a se stesso. Che rimane, sennò, al di là della professione o di una saggezza autoreferenziale? Non crede che sia proprio questa la debolezza costitutiva della CF? Una pratica perpetuamente autofondante?
L'anonimo che nota che "il dal lago" si diverte, ma noi consulenti no ecc., coglie il punto. Non tanto e non solo la gratuità, in senso economico, del pensiero che si affida al gioco della scrittura, ma la gratuità ludica del gesto. Si fa filosofia (o letteratura o poesia o sociologia) per divertimento o per passione o entrambe. Ovviamente, mi si obietterà che l'università è un modo indiretto di vivere di pensiero. Ora, a parte il fatto che ci siamo passati tutti o dovremmo passarci tutti per la malconcia istituzione, nell'idea di università che mi è cara si è pagati per far ricerca e insegnare, non si insegna - o non si dovrebbe insegnare - per lo stipendio. La differenza è essenziale e descrive esattamente il destino di Martinetti rispetto alla sorte felice di tanti professori in pantofole e orbace. E questo vale anche per i consulenti. Se saranno in grado di praticar l'indipendenza di giudizio verso mammona o l'impresa, o invece no, dipenderà da quello che scrivono e per chi, oltre cha da quello che fanno. Stiamo a vedere. Un saluto

 
                                                                                                                                        Alessandro Dal Lago

Caro professore,
L'anonimo utente, che probabilmente conosco ma al quale non posso rivolgermi direttamente, ha parlato di "divertimento" ma non lo ha "praticato", nel senso che ha affermato che il dibattito "non è molto interessante" (salvo poi parteciparvi, esempio classico di non perfetta interazione tra la pratica del dire e del fare - proprio di ciò si occupa, lo dico per inciso, la CF, vedi il testo di R. Lahav, Comprendere la vita). Io non ne parlo per pudore, perché quando si tratta del destino professionale delle persone credo che la cosa sia seria. Tuttavia mi diverto molto, nel senso che ho il gusto per questo dialogo, la curiosità per l'argomentazione del mio interlocutore e il piacere di dire e ascoltare. Tutto ciò credo che basti alla filosofia e forse qui sta la differenza tra le nostre vedute. Se ho ben compreso,infatti, lei attribuisce alla CF un'insufficienza di "scrittura", e dunque il rischio di una sua riduzione a saggezza autoreferenziale. Non saprei...forse c'è un gioco autoreferenziale anche nella pratica della scrittura, si pensi solo, per esempio, alle dinamiche relative alle recensioni dei testi, per cui una testata pubblicizza autori amici con indifferenza sovrana rispetto ai contenuti...oppure alle pubblicazioni "obbligatorie" in cui per esigenze accademiche qualcuno scrive pagine e pagine senza avere nulla da dire.
In realtà il rischio di autoreferenzialità esiste sempre quando si pensa, ma una filosofia costitutivamente dialogica, come la CF, mi pare sia nelle migliori condizioni per evitarlo. Dico questo in assoluta consapevolezza che questo dialogo avviene...per iscritto, ma anche nella convinzione che a voce, davanti ad una tavola imbandita (meglio!) o in un gruppo nulla si perderebbe...ma questa è una questione, lei converrà, fin troppo antica.
L'esempio che lei porta di P. Martinetti è infine per me molto stimolante. Nella rivista PINC (www.pensierincorso.it) ho recensito un testo del filosofo piemontese, "L'educazione della volontà", in cui sono state trascritte le riflessioni che aveva elaborato in occasione di incontri per non filosofi, organizzati la mattina presto prima che ognuno dei partecipanti attendesse alle proprie occupazioni professionali quotidiane, e durante i quali si parlava di vita, di prassi, di autoeducazione e di autoedificazione attraverso il pensiero. Insomma, potremmo dire, dei veri e propri gruppi di pratiche filosofiche ante litteram. In che cosa si differenziavano questi momenti dalle normali lezioni? Forse non per il metodo dell'esposizione ad un pubblico, ma certo per i contenuti e le finalità, ed anche per la qualità del pubblico stesso, composto da professionisti che domandavano filosofia a partire dalle loro concrete esperienza di vita. Ad essi rispondeva un professionista che oltre ad essere tale era anche filosofo, cioè disponeva di strumenti adeguati per "pensare la vita". Qui mi sembra ci sia tutto. I metodi poi possono cambiare..."tutto va bene" come diceva il buon Feyerabend. E tutto va bene, giacché anche l'insegnamento è pratica a tutti gli effetti e dunque siamo assolutamente fuori dalle sterili dispute sulla bontà o meno della filosofia accademica.
Al suo interno sarà sempre distinguibile buona e cattiva filosofia, come lo è in modo del tutto simile all'interno del mondo delle pratiche filosofiche. Se il suo "stare a vedere" allude ad un'attenzione critica su questo piano, come peraltro mi pare di capire dal complesso del suo intervento, viaggiamo indubbiamente nella stessa direzione. Un cordiale saluto
 

                                                                                                                                        Massimo Maraviglia